Una carne viva, che urla. Una mente desta, che ansima.
Miliardi, in questo esatto momento, di carni che urlano di dolore. Miliardi le menti che ansimano di sofferenza. Che niente può alleviare. Che nessuno può sedare, consolare, confortare. In questo preciso istante: miliardi di corpi senzienti e miliardi di anime coscienti che stanno male da morire. Per i quali – tutti, o per moltissimi dei quali – lo strazio, che sia fisico o morale, finirà infatti solo con la morte. Saperlo, avvertirlo, diventa per me sempre meno sostenibile – meno compatibile con una ragionevole serenità, e perfino con la mia vita ordinaria. Eppure, anche per chi mi sta accanto con amore – perché non debba scontarne conseguenze –, vi faccio fronte. Ancora. Sono – cerco, di essere – giusto con tutti i senzienti e i coscienti, a causa di questo sapere, incipiente, involontario, in-cercato comprendere. Sono – cerco, di essere – mite, gentile, proattivo se e quando e come posso, per lo stesso motivo. Sono comunista (ossia: sono per l’umanesimo socialista), sempre per questo. Sono (diventato, a cinquant’anni) vegetariano, per ciò. Studio, sempre, per questo. Mi esprimo, creo – goffo, inadeguato –, sempre a causa di ciò. Ma tutto questo è, data la mia scala individuale – e pure ammesse, e non concesse, la mia buona volontà, le mie capacità e le mie risultanze fattuali –, totalmente incommensurabile con l'infinità dell'urgenza. Quindi, cosa vorrei più di ogni altra cosa? Che mi ammalassi di una malattia della testa, la quale mi facesse credere incrollabilmente che esiste, in ciascuna di quelle carni e di quelle menti, una forza interiore – un credere, direi, a sua volta, se non un aver per certo – tale che l’oggettivo dolore, la sofferenza indubitabile, siano ciononostante da essi tutti sopportati, leniti, smorzati. E che da questa malattia io non guarissi mai più. Se consentite un parallelismo spirituale (e un non lieve scarto logico) – è come se io, se fossi cristiano, pregassi non per aver io la fede (che mi sarebbe comunque estranea) ma perché ce l’abbiano tutti quelli che soffrono; o come se io, se fossi buddista, praticassi non per conseguire la serena accettazione (che non riterrei raggiungibile praticando) ma perché la conseguano tutti quelli che patiscono. (Lo scarto logico consiste ovviamente nel fatto che se, cristiano, non avessi intanto io la fede, nemmeno avrebbe senso che pregassi per alcunché; stessa cosa nel caso del buddismo. Ma è – spero – per provare a intenderci.) Ora, io so – non suppongo, ma so – che in alcuni di quei corpi e di quelle anime questa forza esiste: sono i corpi e le anime degli umani credenti in qualche entità provvidente ovvero saldi di un grande stoicismo. Ma: intanto non posso sapere quanto sia efficace questo loro credere o sentire – quanto sia costantemente efficace –, allo scopo di avvertirsi essi sufficientemente confortati a fronte dello strazio subìto; inoltre, esiste anche una grande porzione di umani i quali non hanno in sé solida, o non hanno affatto, né quella credenza fittizia, se non sotto forma di mera supposizione, né quell’attitudine filosofica, se non come posa superficiale – e come tali, entrambe inefficaci allo scopo; e infine, miliardi e miliardi di carni e di menti non umane, che non hanno escogitato evolutivamente né il palliativo della fede né quello culturale, io so (non suppongo, ma so per certo) che devono affrontare il dolore che fa urlare, la sofferenza che fa ansimare – da morire – senza nessunissima consolazione. Mai. Tutte queste voci, umane e non umane, che stanno gridando ora. Tutti questi pensieri, umani e non umani, che stanno rantolando ora. E io non posso farci assolutamente niente. Se non saperlo, sentirlo. Ma, d’accordo: cammino. Camminiamo. Amo, sono amato – ed è moltissimo. Sono fortunato, tanto. Quella malattia della testa forse mi prenderà. Forse no. Forse mai – perché non esiste. Esiste solo la sordità. Ma è dalla sordità, appunto, che sto poco a poco guarendo. Una guarigione non voluta, non cercata, non meritata. Che accade. E mozza il fiato. *: Julika è un anziano rumeno che chiede l’elemosina da circa tre anni negli angoletti da cui non lo cacciano, molto vicino al mio posto di lavoro. La chiede – la chiedeva – insieme a Charlie, un cagnolino all’inizio poco più che cucciolo, e poi sempre espansivo, dolce, soffice. Pochi giorni fa qualcuno ha sottratto Charlie a Julika (e Julika a Charlie); per motivi di denaro: per venderlo a qualche famiglia con bambini, o molto più probabilmente per vincolarlo ai piedi di qualche altro bisognoso il quale, però, non ha alcun legame di affetto col cane, né il cane con quello. Il vecchio Julika non aveva altro che Charlie (di cui possiede addirittura, non so come, il libretto veterinario), e anche il piccolo Charlie non riceveva altro calore che da quell’umano. Io ho parlato con Julika, grazie alla traduzione simultanea di Daniele, un rom caritante anche lui in zona; abbiamo esaminato molte ipotesi e strategie possibili, ma credo – crediamo – che non ci sia modo di ritrovare Charlie e riportarlo da Julika. Ho cercato di immaginare il dolore dell'uomo, benché lui mostri grande dignità – come sempre peraltro. E non sono riuscito ad evitare di immaginare gli scenari peggiori in cui dal rapimento il cane si dibatte. Poi ho scritto. |