Come, e nella stessa misura in cui, nella società bigotta la caratteristica saliente è – sotto un certo profilo – una classe di apparati e procedure colpevolizzanti e autocolpevolizzanti degli individui, così nella società secolarizzata la caratteristica saliente è – sotto un certo profilo – una classe di apparati e procedure deresponsabilizzanti e autoderesponsabilizzanti degli individui stessi.
Ossia: nella società bigotta è sempre colpa tua, di qualsiasi cosa – anche di ciò che non si può imputare tu abbia commesso, al limite è colpa in omissione; in quella secolarizzata non è mai colpa tua, di niente – neppure di quello che hai fatto in prima persona e, sembrerebbe, con tutte le intenzioni. E’ all’astinenza dalla frequentazione di tali apparati e dalla prossimità con tali procedure, che intanto vi esorto. In entrambe le società gli individui vengono mantenuti in uno stato di artefatta e prolungata minorità etica – ed è lo specifico motivo per la creazione e la messa a punto di apparati e procedure dell'uno e dell'altro tipo. In entrambe le società esistono classi di figure (reali e/o virtuali) intermediarie tra i singoli individui e la collettività, incaricate nella prima – quella bigotta – di rendere impossibile agli individui un esame razionale dei fatti e del proprio agire che li liberi dalla schiavitù della colpa moralistica, e nella seconda di rendergli impossibile lo stesso esame che però li liberi dalla nemesi della morale irrilevanza. E’ all’astinenza dal tributare il minimo credito a tali figure reali e/o virtuali, in entrambe le società, che altresì vi esorto. Attenzione: la linea di demarcazione tra la società bigotta e quella secolarizzata non è né lo spazio né il tempo; infatti è impossibile dire 'prima c'era quella e ora c'è questa' o 'qui c'è l'una lì l'altra' – bensì, sotto un certo profilo, essa linea è la mera stratificazione socioeconomica. E ciò si deve al fatto che la società secolarizzata costa un po' di più, alle risorse sia private che pubbliche (materiali e non), mentre quella bigotta è apparentemente gratuita: quindi, tornando al primo assunto, dedurremo che i ceti inferiori e medio-inferiori subiscono e alla lunga introiettano perlopiù apparati e procedure colpevolizzanti e autocolpevolizzanti, mentre quelli medio-superiori e superiori ne subiscono più che altro di deresponsabilizzanti e autoderesponsabilizzanti, introiettandoli alla lunga. Tuttavia il principio d'ordine in entrambi i casi ha uno solo scopo, medesimo: lega gli individui – quelli in colpa dinanzi alla società bigotta con la necessità del perdono e del condono, quelli irresponsabili tutti della società secolarizzata con la pratica della mutua complicità. E così legati, i membri dell'una e dell'altra non possono mettere realmente in discussione le strutture e le dinamiche di potere delle rispettive società – allo stesso modo in cui a degli adolescenti, siano essi resi docili dall'autoritarismo della famiglia ovvero sostanzialmente estraniati dal suo permissivismo, è di fatto impossibile rendersi protagonisti nel mondo degli adulti, e perfino provare a diventarlo. Per inciso, la società socialista – a differenza di entrambe, purché socialista vera e compiuta – è quella che ci vuole adulti, e che può renderci tali: per definizione è la società dell'etica, non del moralismo, quella della comunità e non della complicità, quella della libertà, dignità e responsabilità personali e di una reciproca, attiva, generalizzata, presa in carico – ossia, quella in cui apparati e procedure di colpa e di perdono e intermediari per giustificazione e per irrilevanza, non hanno più alcun senso né scopo. (Dalla definizione, e dal contro-esame della Storia realizzata, consegue che i sistemi asseriti 'socialisti' del XX Secolo, nei quali le pratiche di colpevolizzazione e autocolpevolizzazione dei cittadini o, simmetricamente, di deresponsabilizzazione e autoderesponsabilizzazione, sono invece state – tranne in pochi e felici luoghi e momenti – usate e abusate, non socialisti erano; bensì altra cosa – la cui giustificazione o in-giustificazione dinanzi al percorso di emancipazione umana trascende gli obiettivi di questo articolo). E se il Potere (che indichiamo qui genericamente capitalista, globale ovvero locale), nello stato di cose presente, teme e combatte l'avvento possibile della società propriamente socialista per ovvi motivi d'interesse macrostrutturale (agitando anche lo spauracchio di quelle esperienze, suddette, pseudo-socialiste come sciagure di illibertà e infelicità), notevole e meno ovvio è che gran parte della gente lo tema e combatta (e rifiuti, perfino, a priori), per ciò: l'adolescenza prolungata all'infinito è la più seducente delle illusioni, tanto popolari quanto borghesi. E’ all’astinenza da questo prolungamento innaturale e alienante dell’adolescenza, che vi sto esortando. L’adolescenza artefatta in questione è tale – artefatta – e alienante, in quanto rispetto alla corrispettiva stagione naturale della vita umana (quella lunga neotenìa che ci differenzia assai dalle altre specie animali), essa è scientemente deprivata di una caratteristica fondamentalissima: la creatività. Infatti, almeno in questa vasta parte del mondo e in questa lunga stagione della Storia, il Potere (come sopra indicato) persegue l’obiettivo di mantenermi bambino a vita incollandomi addosso solo alcuni dei destini dell’infanzia reale – possiedi! ambisci! domina! – ma immaginazione, il meno possibile. Non sia mai che con essa io riesca poi a sviluppare un dissenso efficace perché nutrito da una visione alternativa al modello imposto. Cosicché dell’adolescenza mi resta tutto il portato ansiogeno senza alcun contraltare libertario. E il sistema dorme – finora – tra quattro guanciali. Alle brutte, aggiunge sedazione – per prevenire sedizioni eventuali. In ambiente borghese, vasto e diversificato (ci torno dopo), c’è da citare la vulgata deforme della psicoanalisi che il grande pubblico, lungi dal prendere per ciò che è: un ramo dell’arte medica che si occupa di studiare e curare isterie, nevrosi e psicosi, ritaglia a proprio uso e consumo come principio generale di assoluzione individuale, di gruppo, generazionale e di classe. ‘Non mi colpevolizzerete: al limite prendetevela col mio inconscio, ma a me prendetemi come sono!’ è teorema che va infatti assai di moda (tra chi deve aver confuso Freud, Jung, Reich e Lacan per i corrispettivi maschili delle tardo-ragazze di Sex and the City). Pertinentemente al nostro tema, di questa stessa moda dis-culturale fa parte una specie di ‘dieta morale’ predicata nell’ambiente: astenersi dai pensieri negativi, dai rimorsi, dalla ricerca della verità, dalla tensione verso la perfezione, astenersi soprattutto dall'autovalutazione. Ma dai consumi e dalla proprietà, quello mai e poi mai! Vi ricordate di quando pensavamo di non poter fare a meno della seconda casa, della terza automobile, del quarto televisore? Del desalinizzatore, del Bimbi, dell’innaffiatore automatico computerizzato, del futon, del parquet in tutte le stanze, della controsoffittatura coi faretti (pardon, i punti-luce), dell’air conditioning system, dell’acquario tropicale, dei vetri che si scuriscono da sé, della webcam di controllo nella camera dei bambini, del sistema di amplificazione e casse home-theatre, della Wii, di ogni nuova playstation che usciva, di ogni nuovo smartphone che usciva? Del SUV, della Classe A, della minicar, di tre scooter a famiglia? Di Sharm, di Cortina, di Santo Domingo, della cena di rappresentanza a Baschi? Del personal trainer, dello shopping manager, degli animatori al compleanno dei ragazzini, delle farfalle liberate ai matrimoni, di cani e gatti col pedigree, di lanciarsi col paracadute, del bangee jumping, di pilates, della tessera al solarium per grandi e per piccini? Del silicone, del botox, di tutti i ritocchini, degli sbiancadenti e degli sbiancaculi permanenti? Del piercing prezioso, del tatuaggio massivo, dell’extension, delle lenti colorate, delle unghie finte sopra le unghie vere, del reggiseno con le spalline trasparenti, delle camicie su misura con le cifre? Dei Rolex, dei Patek Philippe, dei Damiani al primo amore? Degli Swatch? Dei centri commerciali, delle outlet-newTown, di Louis Vuitton, di Jimmy Choo, di Bikkemberg intorno ai piedi, di Calvin Klein sul pacco? Degli stilisti maitre-à-penser, dei rotocalchi all-gossip-news? Della pasta comprata qua, del vino comprato lì, del sapone comprato là – che sennò non sei nessuno? Delle centinaia, migliaia, dei milioni di oggetti di marca indistinguibili fra loro? Dei marchi su ogni centimetro quadrato libero di noi stessi e di Universo? Delle ore di nulla televisivo che prendevamo per qualcosa che esisteva davvero? Vi ricordate di quando pensavamo di non poter fare a meno di guadagnare più possibile, di comprare più possibile, di mettere da parte più possibile, di lasciare ai nostri figli più denaro possibile, più cose possibili? Vi ricordate di quando pensavamo di non poter fare altro che questo, per crederci umani? Dall’inizio della crisi, solo in Italia sono morte ogni anno centinaia di migliaia di aziende – la maggior parte erano neonate o poco più. Posti di lavoro persi, produzioni interrotte, infrastrutture abbandonate, contratti disonorati, debiti, crisi personali, ferite sociali. Ma cos’è questa follia di credersi tutti pesci d’altura, salvo poi spiaggiarsi in massa e crepare? E non si contano più le famiglie con un mutuo da pagare per la casa, che se prima era solo tanto faticoso – quando il lavoro c’era, e con esso del reddito sicuro – ora è semplicemente l’ascensore diretto per la cantina delle nuove povertà: porte bloccate, caduta libera. E quanti tracolli fra i tesoretti azionari e obbligazionari, vogliamo parlarne? Vi hanno fregato, diciamolo. Il sistema, per replicarsi più a lungo possibile così com’era, avendo esaurito le risorse materiali, avendo conquistato tutto, avendo estratto tutto, avendo venduto tutto, ha avuto la geniale idea di attingere alle risorse, alle voglie, alle smanie, alle paure, alle speranze delle donne e degli uomini – e non più soltanto in funzione di consumatori (quello lo fa da sempre), ma pure come investitori, correi veri e propri. Così fu instillato il seme: ‘dovete possedere, dovete rischiare, dovete voler vincere, un piccolo comandare, uno spigliato dare e avere, dovete voler distinguervi a tutti i costi’. Matematico: il resto del disastro l’avete fatto da voi – previo trapianto d’anima su scala di massa. E per qualche anno era anche durata. Ora però sembra di stare in una di quelle cripte costruite con le ossa di chi man mano tira le cuoia. Non vi fanno pena i vostri femori, i vostri teschi, a fondamenta di una reggia che non abiterete mai? Non vi fa rabbia che crollerà comunque, salvo qualche altra invenzione contro la vita? Tra un po’ – dove viviamo noi, gente comune – gireranno solo cassoni fuori produzione, al posto delle belle macchine che compravate un tempo, davanti a palazzi dai muri scrostati, al posto delle case belle di cui eravate orgogliosi. E sotto, bambini a giocare in canotta e sandali dei fratelli maggiori. Insomma, gente – avete fatto carte false per avere la ricchezza dell’America, rifiutando irridenti anche solo il (nostro) sogno di un’equità cubana. Bene, tra non molto avrete tutta la povertà di Cuba, senza nulla della sua dignità, e in compenso sarete immersi in tutta l’insicurezza della vita qualunque americana. Come ci sono riusciti? Molti decenni fa Pasolini ci ammoniva, alquanto inascoltato, riguardo alla mutazione antropologica in corso, forzata dal consumismo disanimato. Oggi la mutazione si è largamente conclamata, e ha fatto sì che mentre prima di essa erano perlopiù il sottoproletariato e la piccola borghesia a voler scimmiottare la borghesia ‘piena’ nelle sue aspirazioni materiali e alienate – anche a costo di un'arrampicata sociale egotica e conformista (per la piccola borghesia) o criminale e tragica (per il sottoproletariato) –, ormai questo demone possiede anche il proletariato stesso, il quale a causa di ciò ha perso la spinta propulsiva di classe che avrebbe potuto, liberando se stessa, liberare la società tutta, e ha perfino perso un’identità e una memoria proprie: a mutazione avvenuta, tutti quanti volevano essere se non ricchi almeno ‘ricchetti’, e se non ricchetti almeno amici loro, nella loro orbita esistenziale, simili ad essi, confondibili a uno sguardo di massima (anche, e soprattutto, un auto-sguardo). Ora, io di ricchi e potenti non ne ho mai frequentati (per fortuna: mia, e loro) e l’astinenza dal loro contatto mi viene facilissima. Però di ricchetti sì, conosciuti e frequentati incolpevolmente (da parte mia) – incontrati da ragazzo, figli e nipoti di ricchetti, magari pure affiancati per un tratto di vita tra i banchi di scuola e dell'università; e anche dopo, conosciuti sul lavoro e nel tempo libero, specie tra le amicizie di amicizie, in qualche loro puntatina da ricchetti tra le cose di valore non materiale che sono l'habitat stesso per gente come me e voi, ma per loro scampagnate che redimerebbero (sperano) un'esistenza agiata, e inconfessatamente sciapa. Questi ci succhiano la vitalità che il loro esser borghesi alla lunga gli sottrae (magnifiche le battute del personaggio di Manfredi all'indirizzo di Gassman in C'eravamo tanto amati, sotto una pioggia cattiva nel 1948; palese la 'confessione' della Winslet in Titanic quando ammette che Dawson-DiCaprio l'ha 'salvata in tutti i modi in cui può esser salvato un essere umano', solo che poi c'è morto); questi ci cercano e si innamorano di noi (platonicamente, più spesso): la verità storica che incarniamo è la cosa più calda che possa raggiungerli, benché da lontano, nel loro spazio rarefatto di piccoli e grandi privilegi. E se questi ricchetti (e figli e nipoti di) non sono proprio nati o divenuti ottusi, finita la scampagnata presso i nostri valori abituali e finito l'innamoramento per noi stessi, rientreranno nei ranghi loro con acuto il dolore che misura la differenza tra noi e i loro simili, la nostra vita e il loro modo di campare. Perlopiù poi ci odieranno per questo, deridendoci pubblicamente come classe – ma nel recesso profondo di ognuno, struggendosi di nostalgia. Prima gli prendete le misure, meglio è. E se ciò richiede della concentrazione, prendetevene il tempo necessario. Il tempo – la nostra epoca va davvero di fretta, troppo. Infatti, nel tradurre un precetto importantissimo dalle scritture della spiritualità tradizionale se ne è persa un pezzo: quello che nei versetti dell'Antico Testamento, nei sutra buddhisti, nei passi evangelici e nelle sure coraniche significava ‘amatevi gli uni con gli altri’, è diventato ‘amatevi’. E basta. Questa è l'epoca del ‘pensiero in meno’, mai del pensiero in più. Il che è oggettivamente un lusso da mantenuti, ma lo stesso è incarnato da chi mantenuto non è – né, per sua (soggettiva) sfortuna, lo sarà mai. Questa è l’epoca della gente assuefatta all’idiozia e all’irrispetto, tanto che è ora assai difficile condurre in porto con chiunque una conversazione in punto di logica e di empatia – perfino tra persone di un certo livello culturale o presumibile senso civico. Questa è l’epoca in cui non va di moda lavorare – quando si ha un lavoro – con coscienza e onestà, a schiena dritta ma senza cupidigia; né amare il Sole e il mare e i boschi e il vento e la gratuità di sorridere dinanzi alla natura nel tempo libero; né formare le proprie opinioni leggendo e studiando; né viaggiare, ma per davvero, tra luoghi e tra umani; né vedere nel diverso un altro se stesso, né ritenere l’amicizia un valore in sé rigoroso, senza che scada in complicità da mafietta; né parlare con i propri figli e insegnare loro quel che si sa, come si può, né ascoltare gli anziani e accompagnarli teneramente fino in fondo alla storia di ognuno; né amare né sperare – insomma, non va di moda vivere, in quest’epoca, nel senso più profondo del termine. La vedo troppo nera? Forse. Ma oggi dobbiamo almeno cominciare ad essere seri con noi stessi, perché questo è il tempo della serietà – o non c’è più altro tempo. Essere seri, anche se ciò costa qualche rinuncia. I would prefer not to – ma perché non lo dice mai nessuno? Io per esempio preferirei non dover gettare cose, quelle che il sistema mi ha indotto a comprare, solo perché così possa subito comprarne delle altre sempre perché il sistema questo vuole. Anche l’astinenza dalla bulimia dell’usa e getta è cosa buona, ovviamente, e io ad essa vi esorto così come vi sono stato esortato a mia volta dalla lettura dell’articoletto che segue. “Forse non sarà la soluzione dei nostri problemi epocali, ma intanto un miglior uso delle risorse, e più semplicemente delle cose, male non fa di certo. Mi spiego meglio: già io (classe ‘74) faccio parte di una generazione per cui l'idea di ‘riparare’ una cosa è sintomo di un’ossessione o almeno indice di ‘tirchieria’; per cui si fa prima e costa meno (meglio: sembra che costi meno) ricomprare piuttosto che ‘rimettere a posto’; e invece... Invece, quanto sarebbe meglio tornare a rivolgersi a un bravo artigiano per poter recuperare la funzionalità di un oggetto, a cui magari siamo anche affezionati, anziché buttarlo via per correre al più vicino centro commerciale (luogo, questo, peraltro tristissimo di alienazione in tutti i sensi: di chi vende, di chi compra, di chi decide incomprensibilmente di ‘farcisi una passeggiata’), a farci vendere da un qualche operatore anonimo un nuovo oggetto il più possibile equivalente al nostro vecchio – ma a noi assolutamente estraneo, muto – il quale acquisto dovrà dimostrarci di essere all'altezza, e molto probabilmente fallirà! E anche nella migliore delle ipotesi, cioè se l'oggetto in questione risulti poi di nostro gradimento, proviamo a pensare qual è stato il costo della nostra decisione – abitudinaria, quasi compulsiva – in termini di risorse immateriali non più riproducibili e di materialissimi rifiuti sempre meno smaltibili. Cambiamo stile? Riparatori di tutto il mondo, unitevi! E comunque io preferirei – forse in questo sì figlia, benché in minoranza, della mia generazione mentre la precedente e la successiva temo non la vedano così affatto – preferirei comprare, per dire, un frigorifero magari meno ‘cool’ ma realizzato in qualche modo ‘dalla collettività per la collettività’ secondo le regole dell'utile generale, dei diritti dei lavoratori e della tutela ambientale; o almeno, voglio avere anche questa opzione tra le mie possibilità di cittadina/consumatrice. Invece, ora come ora, sono del tutto costretta a comprarne uno molto o abbastanza cool – o anche per nulla, ma nondimeno – realizzato da un privato per un privato secondo le sole regole dell'utile privato (che dell'ambiente e dei lavoratori se ne frega). Se questa è libertà… Ma la moda, se dio vuole, sta cambiando. Guardate qui. ‘Di fronte alla crisi, l'Italia corre ai ripari. Rammenda, rattoppa, riusa, crea gruppi di incontro. Segue un'idea nata ad Amsterdam e ormai diffusa in tutta Europa. Il recupero di ciò che si ritiene erroneamente inutile farebbe risparmiare agli italiani 11 miliardi all'anno, più della spending review. Ripartire da ciò che è stato rifiutato per fare economia? Si riusa tutto, sempre di più. Se libri, mobili e vestiti sono i settori merceologici tradizionali per il riuso, quella degli elettrodomestici è certamente una new entry. Non si ripara solo per necessità, anche per scelta. Soprattutto all'estero. I "cafè reparation", nati ad Amsterdam e diffusi in molti paesi d'Europa sono punti di incontro dove ci si scambia informazioni sulla riparazione e dove ci si aiuta, gratuitamente, a rimettere in pista gli oggetti fino a ieri considerati inservibili, e ora la crisi e una diversa coscienza ecologica spingono un po' tutti a frequentare gli spazi del riciclo. Ma solo in alcune città (a Torino con la cooperativa Il Triciclo, a Modena con il centro raccolta Tric & Trac) vicino alle isole ecologiche comunali sorgono spazi dedicati al riuso, e il metodo si può dire che funziona se nel centro modenese un terzo di ciò che entra come rifiuto viene riacquistato come oggetto funzionante. Una norma in tal senso aiuterebbe, ma l'unica esperienza difficile da imporre per legge è quella del cuore, del sentimento.” [Valentina Manusia, da www.riconversione.weebly.com ] E fuori da queste ‘riserve di buon senso’, è il delirio. Il mese scorso, ricordate, a Sidney ci stavano venti poveri cristi chiusi in un bar sotto tiro di un pazzo criminale. La televisione ha dato la notizia e allestito la diretta, e la gente che ha fatto? Sono andati là davanti a farsi selfie smaglianti a cento denti, e ci hanno inzeppato i social per tutto il giorno. Intanto dentro gli ostaggi crepavano di paura, due ci sono crepati davvero e alla fine la polizia ha crepato il matto e ha liberato i poveri cristi. Fine del divertimento degli autoscatti 'io c'ero' e della pubblicazione in tempo reale sulla rete! Questa è la nostra società: immagine, effimero, presenzialismo, sorridentoni. Care e cari, se vi avete un minimo ruolo spero ci stiate facendo tanti soldini. Almeno avrà avuto un senso, almeno per le vostre tasche, questo rinsecchimento umano indotto; anche perché serviranno, i soldi, a pagarsi qualche tutela rinforzata quando alle torme dei selfie e dei social non basterà più andare a vedere il disastro da vicino per dire 'io c'ero', ma provocarlo addirittura. E potrà capitare anche non distante da voi, o da me che non c'entro niente. Niente. Perché io ho tantissimi difetti, ma all'edificazione di questa civiltà 'transeunte' non ho mai dato un pelo. Manco perdo tempo a guardarla da fuori, figurarsi! Un gradino più severo di me in questo, credo sia rimasto solo chi consideri Bach un fischiettatore da talent-show; due gradini, chi dia a Omero del furbetto story-teller; e tre, quello per cui i graffiti di Lascaux siano una sciatteria in serie alla Keith Haring. Ma come si fa?! Amanda Knox, giornalista. Cura una rubrica di spettacoli e cronaca locale per il settimanale West Seattle Herald. Due volte condannata per l'omicidio di Meredith Kercher, ora le sue opinioni faranno opinione. Olindo e Rosa devono essere davvero due zappe, sennò già stavano su qualche TV commerciale – in streaming dalla cella – a dare le ricette per cena alle italiane. I would prefer not to! Anche se sono un inguaribile ottimista: visto il recente batti e ribatti dei social nostrani sulle dichiarazioni di JP.Morgan, mi ero quasi ricreduto sulla catatonia intellettuale e morale dei compatrioti contemporanei; poi qualcuno – impietosamente, o pietosamente – mi ha fatto notare che nessuno, nei post e contropost, scriveva 'JP'. Processarono Tortora per il reato sbagliato: inventò il ‘nessuno-celebrità’ e il televoto dal divano – la pena prevista (ma per noi) è il presente. E ci lamentiamo per l’inerzia e i ritardi contro la trasmissione dell'ebola? In Italia sono anni che nessuno fa niente contro quelle della De Filippi. Una sera che ho acceso il televisore (non per usarlo come monitor, intendo), è apparso il canale 48 del digitale terrestre. Ho sentito notizie per tre minuti e ho letto i sottopancia scorrevoli. Prima di spegnere, sono passato sul canale 1 per alcuni secondi. Poi sul 2, poi sul 3, il 4, il 5. Fino al 20. Poi non ce l’ho fatta più. Perché provavo pietà – insostenibilmente. Come se avessi visto tutto un documentario, ripreso da un aereo che vola su villaggi diversi e sgancia bombe. Ma le bombe erano le loro menzogne e sciocchezze, e i villaggi le vostre teste e i vostri cuori. E’ la prima volta che mi capita. Non devo più farlo – intenerirmi. Almeno non fino a quando non sarò sicuro che la pietà verso i telespettatori italiani non smorza la mia energia nel combattere la loro deleteria massa inerziale, che si oppone al cambiamento dell’esistenza mia, di chi amo e di cosa ha valore per me. Perché noi qui ridiamo e scherziamo. Ma quelli fanno atrocemente sul serio. E il giochino della disinformazione e dell’indottrinamento, se puoi suonare tutti i tasti della testa delle persone, è di una semplicità perfino diabolica. Giacché noi – grande pubblico – non siamo al cospetto della menzogna, ma vi siamo immersi. Al punto che si può esser ‘agenti del nemico’ anche senza rendersene conto, e perfino volendo essere tutto il contrario: attori inconsapevoli della reazione, che pure si odia, se solo si è stati esposti troppo a lungo alle sue armi di mutazione antropologica; e lo si è, nemici oggettivi del proprio ideale, perché ormai si è mutati in pesantezza o miopia o superficialità insanabili. Perché la reazione e le sue armi erano davvero poderose, e noi non così attenti e non da subito. Quindi io non posso considerare seriamente mio alleato – tanto per quantificare – chi per almeno cinque degli ultimi trent’anni, si sia dedicato alla fruizione di prodotti dei network televisivi italiani o stranieri per più di un’ora al giorno, con qualunque intenzione (anche critica, perfino): fa un totale di oltre 1825 ore. Ossia l’equivalente di un’esposizione ininterrotta di quasi ottanta giorni e ottanta notti alla più pervasiva e passivante delle ipnosi di massa. Fidarsi di anime in tal misura brutalizzate sarebbe come chiedere allo scorpione di non pungere. E però… Però io stesso – devo ammetterlo – non sono proprio ‘innocente’, come invece ho detto poco fa; giacché se non dalla compulsione dei media ‘unidirezionali’ (TV e simili, shopping, arrivismo…), tuttavia sono (stato) anche io affetto da quella dei media relazionali, sia nel mondo virtuale (i social network) che nel reale (la partecipazione ‘coatta’ a qualunque istanza collettiva – con finalità di attivismo politico – benché se ne potesse cogliere fin da subito l’inutilità fattuale, e al dunque la mera valenza narcisista). Ho nutrito insomma la temperie del momento, e direi solo per il mio gusto privato – faccio ammenda. Anni di onorata carriera su Facebook, quasi cinquemila ‘amici’ (il massimo), la creazione di una quantità di pagine fan, alcune di largo successo, un impegno sempre più assorbente e ‘distraente’… senza mai riflettere (se non alla fine, decidendomi infatti a uscirne) sul fatto incontrovertibile che se sul social tutti sono autorizzati a parlare (è la sua forza) nessuno ascolta davvero, poiché tutti sanno che nessuno sta lì in quanto abbia qualcosa di importante da dire ma solo perché ‘aprire bocca’ è assurdamente semplice: perché chi ha l’urgenza di (della verità, dello spirito) e il titolo per (di studio, di esperienza) offrire un qualche spunto sull’umano, fa conferenze o scrive libri o crea arte o agisce la vita – certo non chiacchiera digitando nel nulla. E quanto all’attivismo, testimonio che può diventare un vizio anche quello. Per anni ho fatto parte di comitati, collettivi, associazioni, progetti di partito, gruppetti di controinformazione… animando iniziative, riunioni, assemblee, manifestazioni, presìdi, tavoli di lavoro, sperimentazioni, deliberazioni… e registrando con progressivo sconforto che le facce che vi s’incontrano son quasi sempre le stesse. Finché mi sono fermato un attimo a vedere, da fuori, e a pensare; a pensare ‘perché la gente non c’è?’. La risposta non l’ho trovata ancora, però ho capito questo. Che partecipare di persona dona, sì, la gratificante consapevolezza di darti da fare in ciò di cui c’è bisogno, e insieme il divertente piacere di farlo conoscendo e frequentando gente di buona qualità; e però giusto per questo alla lunga ottunde proprio lo scorno per l’assenza della ‘massa’: alla fine tutto questo sbattersi tende a essere una giustificazione che si dà a noi stessi, del tipo ‘io il mio lo sto già facendo’, e toglie inevitabilmente intensità alla ricerca dei motivi per cui la massa manca e delle azioni concrete per contrastare quei motivi. E invece ciò che occorre è uscire esattamente da quell’ottundimento – decisione che pagherai, per forza, con un po’ di nostalgia. In ultima analisi siamo bulimici di interattività perché ci piace essere amati – eccolo, un tipo di egoismo. Ma amati in questo modo superficiale e ‘passante’ – che è tutt’altra cosa dall’esserlo (e dare amore) per davvero: altro frutto, questa distorsione, della mutazione sopravvenuta per deresponsabilizzare il nostro intelletto e narcotizzarci l’anima. Volevamo una scorciatoia alla sofferenza, una passerella franca sul ‘selvaggio dolore di essere uomini’. Il sistema ne ha approntate alcune (e ci lucra sopra), ma ne abbiamo abusato (fraintendendo tutto). Io pure. Invece, astenersi! Patricia Bauer, psicologa all’Emory University, ha dimostrato che possiamo perdere i nostri ricordi quando le sinapsi che collegano i neuroni si deteriorano per via del disuso: se non usiamo mai un ricordo, quelle sinapsi saranno usate per un altro scopo. Ora: ognuno di noi, almeno una volta ma chissà quando, ha provato una netta empatia verso un altro essere umano in difficoltà non per un guaio temporaneo o privato o sanitario, ma strutturale e causato dal sistema socioeconomico vigente; ognuno di noi, almeno una volta ma chissà quando, ha formulato distintamente il pensiero che un essere umano in difficoltà per via del sistema socioeconomico vigente andava aiutato non solo con commiserazione individuale attiva, ma con la collettiva determinazione politica a cambiare quel sistema ingiusto; ognuno di noi, almeno una volta ma chissà quando, ha sentito dentro di sé la speranza e il coraggio – insieme – che quel sistema si potesse cambiare davvero, non solo sognarlo, e che sarebbe cambiato anche grazie al nostro personale contributo. Queste tre azioni interiori – l’empatia, il riconoscimento dello stato di cose, e l’impegno – ognuno di noi le ha di certo vissute. Almeno una volta e chissà quando. (Io chiamo ‘compagni’ appunto coloro che le hanno vissute tante tante volte, e l’ultima di sicuro assai recente.) Però la stragrande maggioranza delle persone (e perfino qualche compagno) nell’età contemporanea è di fatto impossibilitata a usare con costanza le sinapsi che connettono i neuroni formando i ricordi di quelle azioni, con l’esito che le sinapsi si deteriorano per via del disuso: noi, non usando mai quei ricordi, destiniamo quelle sinapsi ad altri scopi. Ebbene: la società dello spettacolo (cito i classici), il villaggio globale (ancora un classico) e l’era dell’ipercomunicazione (questo è attuale), sono i mezzi allestiti dal Potere affinché noi non abbiamo altro spazio neuronale né altro tempo sinaptico che quelli minimi per accogliere ed elaborare il corrente universo di dati e stimoli che ci provengono da ogni parte, col risultato che ci è di fatto impedita la periodica ricapitolazione dei ricordi di empatia, riconoscimento e impegno – che dunque perdiamo per disuso, forzati a destinare il nostro cervello ad altro. E’ per questo che io faccio tanta astinenza di quei mezzi terribili: perché so di essere vulnerabile al pari di ognuno (ho appena fatto ‘outing’), e non voglio perdere i miei ricordi più umani. Vi esorto alla stessa igiene, e se perciò passo per un reperto archeologico non m’importa poi molto. Al dunque io non ho altri meriti che la frequentazione di Gramsci e di Pasolini, di Lukàcs e Debord e Marcuse, di Bradbury e Orwell e Carpenter e Andy e Lana Wachowski (tra i molti altri e le molte altre), a scapito benedetto della prossimità col teatrino pubblico dal quale appunto rifuggo ora con ogni accortezza e con convinzione (premiata da una ritrovata misura interiore). E anche grazie a questo, con non poco lavoro di concentrazione e di immaginazione (a supplire la mia connaturata, povera ‘qualsiasità’), io sono rom a Roma, sono ebreo in Europa Orientale, sono palestinese a Gaza, sono un migrante sui barconi, sono negro tra i segregazionisti, sono gay tra i sessisti, sono un operaio nella Cina rampante, sono cristiano nei villaggi nigeriani, sono una bambina tra gli stupratori in India, sono povero nel capitalismo, sono donna dappertutto, sono un animale non-umano – da sempre talmente torturato che seppure tutti gli animali umani diventassero vegani da oggi e per cento secoli, il mio urlo di dolore, di paura e di rabbia non si estinguerebbe. La verità è che ogni processo di emancipazione è un processo storico, lungo o lunghissimo. e le prime manifestazioni di un processo di emancipazione sono necessariamente minoritarie, e appaiono eversive, eretiche, iconoclaste, e in quanto tali sono bollate dalla maggioranza – pur in buona fede – come episodi di fanatismo ingiustificato. E’ normale: l'emancipazione, rispetto a una qualunque arretratezza, quando per motivi imponderabili (senza particolari meriti individuali: per sorte, genetica o ambientale che sia – spesso un mix di entrambe) si palesa nella coscienza di pochi battistrada e diventa il loro comportamento sociale, quindi visibile, interroga di per sé profondamente la coscienza di tutti gli altri, e genera in essi una resistenza più che prevedibile a mettersi in discussione, a reimpostare radicalmente vita e valori. Solo per restare all'Occidente, è stato (ed è ancora) così per i primi ambientalisti e animalisti, com'è così per gli anti-omofobi, fu così per le suffragette del voto alle donne, per i primi indagatori dell'inconscio, per gli antisegregazionisti e prima ancora per gli abolizionisti riguardo allo status degli afroamericani, per i socialisti e gli anarchici ovviamente, per i primi vaccinatori contro le malattie epidemiche, per i primi sterilizzatori contro l'infezione all'epoca neppure ipotizzata, per tutti quelli che si schieravano contro tortura e pena capitale, per i primi tolleranti e libero-pensatori, per i formalizzatori dello stesso pensiero scientifico, per i primi atei, per i solidaristi concreti, i riformatori agrari, gli antischiavisti e in generale i non-violenti. E su su nel tempo, un po' dappertutto nell'ecumène, è stato così per i grandi fondatori di sistemi etici e spirituali, sempre messi in catene o a cicuta o in croce dal Potere, con l'avallo della massa ebetizzata (perché incapace di astenersi dal conformismo imposto), e più su ancora fu così per i primi refrattari a pratiche come incesto, sacrificio umano e cannibalismo, le quali solo grazie al loro scandalo urlato divennero poi tabù per tutti. E’ stato sempre così. Tuttavia – pensiero positivo, concedetemelo – l'Umanità avanza. Con una lentezza estenuante, se vista dall'orologio e col calendario di un singolo essere umano. Però avanza, siamo onesti, alla giusta velocità – direi – per un macro-vivente (la Civiltà) che conta già alcune decine di migliaia dei nostri anni. Così il fanatismo di oggi diventa, per fortuna, il senso comune di domani. Quindi, gente, per tutte le arretratezze odierne da cui non vi siete ancora emancipati – dalla superstizione alle religioni, dal conformismo al capitalismo, dallo specismo al sessismo, dal razzismo al nichilismo –, noialtri saputelli (fortunati) vi aspettiamo. Nel frattempo mi astengo dal nutrirmi delle carni. Sono vegetariano. Da un certo giorno in poi – dopo cinquant'anni di vita onnivora (e carnivora in particolare) – ho realizzato che potevo ben fare a meno di qualche lusso della mia voluttà purché un'altra vita non si spezzasse. Per esempio: fare a meno del sapore prelibato dell'abbacchio (che mi farebbe impazzire tuttora, dopo un anno di regime ovolactovegetariano – si dice così, tecnicamente) se questo consente a un cucciolo di pecora di diventare grande, o fare a meno della porchetta (che ci andrei a piedi fino ad Ariccia e ritorno) se questo fa campare un maialino, o fare a meno del trancio di tonno scottato (anche se misi su una compagnia teatrale intera quasi soltanto perché uno di loro si sceglieva il meglio tonno su piazza e ce lo imbandiva da dio alle prove) se questa piccola rinuncia risparmia a un bel tonnone la mattanza, eccetera eccetera eccetera. Perché? Perché per me questi son tutti piaceri 'in più', la cui mancanza la vita certo non me la cambia; mentre per loro – per le bestie – questo fa la bella differenza tra la morte e la vita: l'unica che hanno (tanto quanto me). Forse questa scelta dipende dal fatto – per me nuovo – che la mia casa è allietata dalla presenza di due mici, della cui salute fisica e mentale cerco di aver massima cura; e oggettivamente trovo assai arduo immaginare differenze tra i bisogni e i diritti loro e quelli di una coppia di individui di qualunque altra specie di mammiferi, e per estensione di vertebrati, e per estensione ancora di animali in genere. O forse gli esperimenti ideali neanche occorrerebbero: non credendo io all'anima insufflata da chissà che dio nell'essere umano (che porrebbe noialtri al vertice dei diritti su tutto il 'creato', e ogni cosa 'creata' in posizione di dovere rispetto a noialtri), né che l'essere umano sia tra tutti i viventi il solo in possesso della facoltà di provare, registrare, memorizzare, presentire la sofferenza e il piacere, né a una qualunque gerarchia ipostatizzata all'interno della stessa specie umana – non devo star tanto a girarci intorno, ma deduco logicamente quanto segue: che tutti gli esseri viventi in grado di provare, registrare, memorizzare, presentire la propria sofferenza, hanno pari diritto di tentare di mettersene al riparo; che tutti gli esseri viventi in grado di provare, registrare, memorizzare, presentire (anche) la sofferenza altrui, hanno il dovere di tentare di metterne al riparo (anche) tutti gli altri; che tutti gli esseri viventi in grado di provare, registrare, memorizzare, presentire il piacere altrui, oltre al proprio, sarebbe assai elegante che contemperassero la ricerca del proprio esclusivo con l'analoga altrui, e anzi favorissero questa concretamente (semmai ridefinendo il proprio piacere voluttuario, appunto, con sobrietà); che l'essere umano che chiamiamo 'borghese' – passatemi tutte le sfumature e tutti i limiti del termine, ci siamo intesi (diciamo: i borghesi sono quelli che scrivono e leggono su schermi o visori come questo) – ebbene, è assolutamente in condizione di perseguire sia il dovere di cui al secondo punto che l'eleganza di cui al terzo. Cioè: il mio essere da sempre tendenzialmente socialista e il mio aver inaugurato un regime alimentare vegetariano, credo discendano entrambi da tali deduzioni. Stiamo sempre lì: I would prefer not to. Preferisco di no, tutto qui. Preferisco non uccidere né far uccidere, non schiavizzare né far schiavizzare, non sfruttare né far sfruttare, non raggirare né far raggirare, non inquinare né far inquinare. Preferisco di no. No a dio e agli dei. No all'immortalità individuale. No al dualismo materia-spirito. Me ne astengo. E astenendomene, mi scopro addirittura più pieno, completo, tendenzialmente felice. Certo – a dirla tutta – che già tifare attivamente per gli ultimi della Terra (ultimi socioeconomicamente, ultimi storicamente, ultimi di genere) equivale ad abbonarsi alle partite della peggiore squadra del campionato di calcio. E che se poi a un certo punto ti metti anche a essere animalista conseguente, allora oltre tutto vuol dire che quelle partite te le vuoi vedere nel bel mezzo dei peggiori hooligan avversari. Infine che se sei anche ateo e razionalista, cioè non ti fai sconti né illusioni di ricompense chissà dove, è come se sapessi che tutti i campionati finché campi te li vedrai in mezzo a quei mostri che ti vogliono fare la festa mentre la tua squadretta le prende di santa ragione pure se davanti gli schierano le riserve. Da matti, no? Eppure c’è gente così, sapete? E paradossalmente è contenta. Che gente! Si cercano, si trovano, si riconoscono, stanno insieme – e magari cantano anche un po’. Ah, l’animalismo è altra cosa dallo sciocchezzaio degli slogan come “le bestie sono meglio di noi!”. Invero la natura non-umana non prevede solidarietà, giustizia, democrazia; ma soltanto ‘altruismo’ verso gli stretti consanguinei (tranne rarissimi controesempi che si citano appunto a memoria, come casi di mosche bianche). E’ soltanto Homo Sapiens che ha in sé almeno una proiezione, nella realtà fattuale, di quei valori verso tutti i propri simili. Ma la loro realizzazione non è affatto garantita, automatica. Tutt’altro: essa viene meno su scala individuale al primo cedimento all’egoismo che abita gli strati profondi dello strano organismo ‘dall’anima a cipolla’ che è ognuno di noi. Ed essa realizzazione – ciò che mi sta più a cuore, a me che m’interrogo piuttosto sui fenomeni collettivi che non sull’insondabile singolarità – viene meno su scala sociale ogni volta che non si dia un’azione razionale e organizzata, ostinata e contraria all’egoismo individuale alimentato dal sistema per fare affari, e moltiplicato per mille, milioni, miliardi. La pietà, la giustizia, la democrazia, il socialismo – non esistono in natura. Purtuttavia noi sappiamo ‘miracolosamente’ sognare tutto questo. Allora si tratta, ogni giorno che ogni comunità umana passa sulla Terra, di forzare la natura e approssimarla più possibile a quel sogno misterioso. Bisogna ritagliarsi il tempo per studiare, bisogna risparmiare energia da spendere confrontarsi, bisogna coltivare la voglia di capire, bisogna unirsi, bisogna sperimentare, bisogna volere – bisogna saper volere, selezionare il volere, e astenersi dal soverchio ne è il training preventivo e costante più idoneo. Siamo anche noi ‘natura’, ovviamente; cioè possiamo aggiungere all’in-creato qualcosa, completarlo con ciò altrimenti mancherebbe – dolorosamente, per la nostra coscienza. L’Universo, di suo, è meraviglioso è freddo. Un po’ di calore può venirgli dai nostri ‘sì’, a partire da quelli di chi (singolo o classe) sia più avanti nel cammino di liberazione – di umanizzazione. Cammino faticoso, zigzagante, conflittuale. Eppure – io credo – noi lo dobbiamo alla Terra: e anche a quei cuccioli di macachi (visti in cento documentari) che stanno morendo di ghiaccio a un passo da un’acqua di vita, in cui non possono entrare a scaldarsi solo per essere nati dalla madre ‘sbagliata'; glielo dobbiamo anche se non sapranno mai se ci siamo o no riusciti. Ma lo saprebbe l’Universo. Attraverso i nostri occhi, che sono i suoi. Ma tutto questo – ciò che ho scritto – è una ricetta? Una proposta? Un programma? Semmai una fantasia da adolescente ‘naturale’, un desiderio, un sogno. Il sogno di un tempo in cui il dominio esercitato da chi e da cosa stante lo stato presente, non sia più sostenuto dal consenso – e/o dall’indifferenza – della maggioranza dei dominati; consenso degli uni e indifferenza degli altri che poggiano sulla distrazione o sulla semplice paura, o entrambe, non importa: qualunque governo morirebbe in breve di asfissia se la maggioranza delle persone su cui domina non collaborasse, o se addirittura gli remasse contro, smettendo di produrre, di consumare, di contribuire, di rispettare le leggi eccetera eccetera eccetera. E in Italia, nel tempo della mia vita finora, l’argine preventivo a questa (remota) eventualità di resistenza (attiva anche solo in quanto passiva, per cominciare) è stato il consolidamento di quella mutazione antropologica di cui menzionavo la profezia pasoliniana: la modellizzazione di un cittadino ad hoc. Il cittadino che non si dà pena di informarsi con obiettività e completezza, che preferisce il luogo comune e il pregiudizio all’esame razionale dei fatti che pure lo riguardano; il cittadino che piuttosto che far valere i propri diritti – se ciò gli costa il minimo sforzo – preferisce bussare alla porta di chi forse gli accorderà un favore; il cittadino che se può scansa i propri doveri di membro di una comunità civile ed evoluta, e ipocritamente si scaglia contro chi poi fa altrettanto; il cittadino che non legge e non studia ma guarda la televisione, e solo quella d’evasione; che non prende posizione, ma tifa; che non rispetta la coda, ma chiede una scorciatoia al compare di turno; che parcheggia in doppia fila o negli spazi riservati; che è incline al mobbing, o lo subisce senza dignità; che non rilascia ricevuta fiscale, e non la pretende; che dichiara tolleranza zero contro l’emarginato, il migrante, il diverso, e invece perdona tutto al gaglioffo di successo, anzi lo invidia; che è maschilista perfino se donna; che non parla con i figli, ma se ne compra i sorrisi al centro commerciale; che non dà valore al sapere degli anziani, e anzi li seda col minimo disturbo; che odia l’immondizia per le strade, ma non si piega alla raccolta differenziata; che si dichiara cattolico ma ignora ogni messaggio spirituale; che tutto ciò che pretende è la sicurezza eppure è avido di cronaca nera; che persegue la felicità privata a dispetto del pubblico interesse, eppure è privatamente sordamente infelice. Il cittadino si è convinto – ossia: che è stato convinto, un giorno dopo l’altro – che ogni cosa ha un prezzo; e sopra ogni altra cosa, che lui stesso ce l’ha – un prezzo, e neanche troppo elevato. Allora – continuando a sognare – io vorrei che qualcuno di grande e meritato carisma, pur in questo Paese moralmente disastrato, evocasse un qualche gesto simbolico in controtendenza, indicesse un appuntamento – magari una giornata, o mezza se una intera è chieder troppo. Una giornata (o mezza) durante la quale chi vorrà aderire (a questa azione rivoluzionaria, al punto in cui siamo) non dovrà far altro che staccarsi il prezzo da dosso: discostarsi il più possibile da quel terribile modello antropologico e somigliare il più possibile a un qualsiasi cittadino di un Paese qualunque in cui vorremmo vivere – noi e chi amiamo – invece che qui. Uno dei tanti Paesi che ci sopravanzano nelle classifiche internazionali sul grado di civiltà, comunque misurato. Per una giornata (ma sì, tutta: dal buongiorno alla buonanotte!) proveremmo ad essere – per esempio – onesti come scandinavi, laboriosi come orientali, tolleranti come caraibici e dignitosi come masai. E io dico che ci scopriremo, la sera, felici come polinesiani. O forse no – ma non è questo il punto. Il punto è che il sistema resiste perché si specchia in noi, nei popoli contemporanei di cui esso stesso ha deformato la fisionomia. Il punto è che le facce di plastica del potere visibile – politico, economico, mediatico – paiono indistruttibili. Ma forse non lo è altrettanto lo specchio. E allora rompiamolo: cominciamo la rivoluzione così. Per un giorno intero cogliamo il regime di sorpresa: giochiamo in contropiede, come nessuno potrebbe sospettare. Asteniamoci dalla bruttezza, dalla sciocchezza, dalla cattiveria. Se gli umani mostrassero a chi li domina – ma soprattutto a se stessi – che non sono (più) quella macchietta di Umanità di cui il potere ha bisogno per esistere, se intanto mettessimo su un giorno da gente per bene, e poi un altro (avendoci preso gusto, magari) e poi un altro e poi un altro… si darebbe il via a una benedetta epidemia di civiltà. E il regime – questo presente – non si rimetterebbe mai più in salute! Ecco quanto sono ancora uno scemo, nonostante tutto il tempo – sottratto alle sirene devastanti del sistema – dedicato al sapere e all’amare. Dev’essere un fatto genetico, inconscio: mica è colpa mia! Concludo con una roba in clima. Ed è lontana anni-luce dal talento letterario di un Melville; pure, sono uno scrivano e come tale vergherò, prima o poi, un’estrema parola. No sarà l’ultimo fumetto / disegnato vicino alla mia bocca Risposta ferma all’eterna lusinga / di allungare la striscia di vignette Sarà no perché l’illustratore / non ti regala quella permanenza E’ la compravendita estrema / dopo un’esistenza di baratti Vuoi campare ancora mezzo foglio? / paga l’affanno paga la rovina! Lui sa per sperimentazione / che il profilo morituro Ha già scordato sé stesso / l’apice di sé stesso intendo Non solo il vigore ma i sì / di una vita i mai e i sempre Sa il disegnatore la fiacchezza / dell’anima inchiostrata a lungo Che per una battuta ancora / accetterà il catetere Il conformismo di ritorno / l’ultimo trasporto dell’amico Così che il baratto disveli / l’inganno del forte al debole L’autore ci guadagni di materia / i lettori solletico al sadismo Invece grazie no uscirà / in una nuvoletta terminale Io presente chiuderò un cassetto / senza merito di felicità sazio Baciata una lacrima penserò grazie / e dirò no, sorridendo |