Implementare tutto il socialismo possibile in Italia a Costituzione vigente, democraticamente. Cioè, creare opinione di massa così persuasa e determinata a tale scopo. Cioè, costringere il nemico di classe a smascherare la propria guerra dall’alto verso il basso della società e a condurla incostituzionalmente e al limite antidemocraticamente.
Riuscirci? Non lo so. Provarci, però, sì: perseguendo da parte di una forza politica i tre punti che seguono. Hanno una propria coerenza interna, perché sono concepiti tutti e tre per aggredire il cuore dell’ingiustizia sociale – la questione del “chi ha cosa, e cosa ne fa” – e perché sono pensati come l’uno il puntello teorico-pratico degli altri. In estrema sintesi: 1. vogliamo che lo Stato dia lavoro producendo ‘cose’ utili (e i soldi per farlo? vedi punto 3); 2. vogliamo che ai privati imprenditori sia impedito di nuocere all’interesse generale (e allora chi è che dà lavoro e produce? vedi punto 1); 3. vogliamo che chi ha di più faccia di più per la collettività (e sennò? vedi punto 2). Sono tre punticini coerenti, ripeto; solo che li ho pensati in momenti diversi per stimoli diversi e ne ho scritto in momenti diversi per occasioni diverse. E così ora vi prendete queste tre stesure per come sono state pubblicate rispettivamente. Che io meglio di così mi sa che non saprei spiegarmi. Se poi l’insieme non somiglia affatto a un programma politico, non è cosa di cui ci si possa minimamente stupire: io non solo non rivesto ruoli di elaborazione in una qualunque delle entità collettive cui spetta il compito di contenitori democratici dell’iniziativa di auto-organizzazione politica di cittadini e cittadine, ma proprio non faccio parte di nessuna di esse – né da iscritto, né da militante attivo, né da funzionario, né da collaboratore coordinato e continuativo. Sono soltanto un (tipo di) comunista. RICONVERSIONE La prendo da qui. Questa riforma della scuola targata Giannini – Renzi – affaristi privati vari, è davvero una iattura. E’ stato già detto da tanti, e certo meglio di come possa fare io. Allora eccomi ad aggiungere – mi pare – al ragionamento collettivo soltanto la considerazione che la riforma, oltre tutto, nientemeno si fa beffe della Costituzione Italiana laddove essa (Art. 33) recita “La Repubblica […] istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. [… I] privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.” Mi spiego? Per Madri e Padri Costituenti la scuola pubblica doveva essere la regola, quella privata l’eccezione. E un’eccezione che seppur praticabile non doveva comunque gravare l’onere di una sola lira (all’epoca – oggi sarebbe un centesimo di euro) sulle finanze collettive, dalle quali infatti si deve attingere per il miglior funzionamento e continuo perfezionamento del sistema scolastico pubblico. Ancora più chiaramente, dice la Costituzione: “Cari privati che volete fare business con la scuola, bene – provateci. Ma con le vostre sole sostanze di privati: imprese, fondazioni, lobby, banche – e finché ci riuscite. Lo Stato, per il popolo e attraverso il popolo, coi propri soldi ha da pensare alla scuola pubblica: quella del popolo!” Che poi è la stessa cosa che recentemente ha detto Gino Strada, il fondatore benemerito e instancabile animatore di Emergency, a proposito della sanità – altro servizio di pura e semplice civiltà, che la Costituzione presidia col diritto alla salute di tutti i cittadini e alla gratuità delle cure per i meno abbienti (Art. 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.”) Ha detto, testualmente: “Oggi la sanità italiana è in crisi profonda. Perché? Perché si è cominciato a trasformare gli ospedali, che devono essere luoghi ospitali, in aziende. Perché l’interesse non è più la salute della persona o la salute della collettività, ma il fatturato. […] La sanità che ha dentro il profitto è una cosa che ci danneggia tutti. […] Io non farei nessuna nuova convenzione tra pubblico e privato, e a scadenza non rinnoverei nessuna delle convenzioni esistenti. Il privato vuole fare il privato. Lo faccia. Ma con i soldi suoi. Perché il privato deve fare il privato con i soldi del pubblico?” E guardate, dico io, non è neppure un problema di soldi. Cioè, sì: tanto pochi sono quelli a disposizione del pubblico – in ogni campo – che davvero grida vendetta che ne vadano (e tanti) dalle pubbliche finanze all’impresa privata per il supporto a servizi che i privati allestiscono in concorrenza con gli stessi servizi pubblici! Ma il problema principale è d’impostazione, di modello sociale, di diritti, di democrazia, di civiltà: infatti, ripeto, nella scuola (come nella sanità) il pubblico deve essere la regola, e il privato solo l’eccezione. Però pubblico non soltanto nel senso che la ‘proprietà’ della scuola (in senso lato: la selezione, la formazione e la gestione del corpo docente, il reperimento e l’utilizzo delle risorse amministrative, l’elaborazione e l’evoluzione dei programmi d’insegnamento, la creazione e la manutenzione delle infrastrutture) deve essere saldamente in mano alla generalità dei cittadini che ne fruiscono, cioè pubblica, bensì nel senso che il modello di funzionamento di ogni sua parte e dell’insieme deve essere assolutamente improntato ai criteri dell’interesse generale, del bene comune, e non – mai – alla visione aziendalista e mercatista tipica del privato. Quindi, prima mi dimostrino – Giannini e Renzi, sfacciati portavoce di interessi imprenditoriali – che la loro riforma non solo non innescherà inevitabilmente un ‘turpe mercimonio’ (si diceva un tempo della prostituzione) tra i cosiddetti manager scolastici e gli sponsor privati, a danno ovviamente dei fondi pubblici a disposizione, ma che non snaturerà profondamente la missione costituzionale e lo spirito egualitario della scuola (così come già accade nella sanità, dice giustamente Strada), e solo poi proverò a guardare le performance del premier che spiega la riforma col gessetto alla lavagna, senza ridere e indignarmi insieme! La Repubblica istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. I privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Questa ‘musica democratica’ suona tanto patriottica alle mie orecchie – e di tanti cittadini di buona volontà e retto pensiero – che spicca anche attraverso il rumore orribile di questi nostri anni (ultimi decenni, veramente) durante i quali è stato dato fiato ad ogni tromba dicesse che “pubblico è spreco, e privato è efficienza”. Lo dicevano e lo ripetono in modo del tutto interessato, ovviamente, quegli stessi che proprio da posizioni di amministrazione pubblica (centrale o locale, generale o di comparto, di gestione o di controllo) hanno fatto e fanno di tutto per far crollare gli standard del servizio pubblico ‘puro’ di scuola e di sanità, preparando al contempo la concorrenza privata (dei loro amici, dei loro mandanti) a subentrargli con un’accettazione drogata, da parte della pubblica opinione, del mis-fatto compiuto. Sarebbero infiltrati, tecnicamente, sabotatori o spie – comunque servitori infedeli dello Stato. In tempo di guerra traditori siffatti passano direttamente dalla Corte Marziale al plotone d’esecuzione. (Però dice che oggi siamo in tempo di pace… Sarà.) Ma – riprendo – quella musica egualitaria e sollecita verso tutti i cittadini cui una democrazia deve assicurare istruzione e salute (musica ‘costituzionale’ deturpata da quasi tutto ciò che sta facendo questo governo, in linea coi precedenti, e devo dire anche con poco filo da torcere da parte del Parlamento) mi piace talmente che la mia idea – da tempo – è quella che essa andrebbe estesa anche a tanti altri servizi basilari per la vita di una collettività che voglia dirsi civile: la casa, l’alimentazione, la mobilità, le necessità personali, l'intercomunicazione, perfino la ricreazione. Pensate… …La Repubblica tutela la dimora come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e istituisce cantieri statali per la costruzione di edifici abitativi di ogni tipologia. I privati hanno il diritto di istituire società immobiliari, senza oneri per lo Stato. La Repubblica tutela il nutrimento come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e istituisce aziende statali per la produzione, trasformazione e distribuzione degli alimenti. I privati hanno il diritto di istituire società di settore, senza oneri per lo Stato. La Repubblica tutela la mobilità sul proprio territorio come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e istituisce fabbriche metalmeccaniche pubbliche per la produzione e vendita di mezzi di trasporto. I privati hanno il diritto di istituire aziende analoghe, senza oneri per lo Stato. La Repubblica tutela il vestirsi come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e istituisce opifici manufatturieri statali per la creazione e distribuzione di indumenti e calzature di ogni tipo. I privati hanno il diritto di avviare imprese nello stesso campo, senza oneri per lo Stato. La Repubblica tutela la comunicazione e le reti di interconnessione come fondamentali diritti dell'individuo e interesse della collettività, e istituisce aziende pubbliche elettroniche, informatiche e telematiche per la realizzazione e commercializzazione di strumenti di comunicazione e apparati di connessione virtuale. I privati hanno il diritto di istituire industrie e società negli stessi settori, senza oneri per lo Stato. La Repubblica tutela lo svago come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e istituisce centri pubblici per la creazione e la diffusione di supporti ricreativi, materiali e immateriali, con cura dell’utilizzo e del gradimento da parte dei cittadini. I privati hanno il diritto di istituire filiere produttive e commerciali analoghe, senza oneri per lo Stato… Dalla regia mi dicono che questo sarebbe già un po’ di socialismo. E va bene, rispondo: nessuno è perfetto! Quella mia vecchia idea, di replicare in ogni campo il primato della titolarità pubblica che la Costituzione prevede espressamente per scuola e sanità (relegando nell'eccezione autofinanziata quella privata), l'ho condensata a suo tempo in una proposta, in tre articoletti icastici, dal titolo Riconversione: Uno Il lavoro produce valore, e ricchezza; i prestiti producono debiti; il prestito dei prestiti produce fallimento, e miseria. Due Il consumo per il consumo (di merci) crea: rifiuti non più smaltibili, diseguaglianze tra individui e tra popoli, insicurezza e alienazione; la produzione per la produzione (di merci) crea: esaurimento delle risorse naturali, divisione mondiale del lavoro e suo sfruttamento, compressione dei diritti dei lavoratori (o disoccupazione). E ciclicamente: crisi, autoritarismi e guerre. Invece, la produzione per la necessità (di merci, ossia beni) e il godimento (di servizi, di significati) non ha controindicazioni né per l’individuo né per il lavoro né per i popoli né per la Terra. Tre La proprietà privata di una parte dei mezzi di produzione e distribuzione delle merci e dei servizi – e perfino dei significati – tenetevela (con le vostre sole forze di privati – imprese, lobby e banche – finché ci riuscite, ma non col sostegno delle risorse pubbliche già scarse). Comuni, e interpretate secondo logiche di piano e di interesse generale, diventino per scelta democratica – ossia della maggioranza dei cittadini chiamati a esprimersi su un programma di riconversione in tal senso (purché qualcuno benedetto lo proponga, e ci chieda alla gente dei voti sopra) – e progressivamente, la proprietà e la gestione di altrettanti mezzi di produzione e distribuzione di beni, servizi e significati, in regime di libera concorrenza con la proprietà privata di cui sopra. Pubblico e privato se la giochino sul mercato: i cittadini determineranno la diffusione dell’uno e la contrazione dell’altro, o viceversa, e in quale misura reciproca. Ed ecco un minimo di spiegazione, già che ci siamo. Oggi come oggi (veramente: da ieri come da ieri) non c’è più lavoro perché nessuno compra più le cose che quel lavoro creava, e nessuno compra più le cose perché non c’è più lavoro (ossia reddito). Ma da questo circolo vizioso si esce solo se la collettività (non il privato, che se n’è dimostrato incapace – infatti siamo da tempo in crisi) dà lavoro per produrre cose che qualcuno voglia comprare, ossia dà reddito perché qualcuno possa comprarle. Quindi il problema politico è quello di far capire alla gente che questa impostazione (pubblicizzazione dell'offerta di lavoro) non toglierebbe libertà (a chi produce), ma la aggiungerebbe (a chi vive, grazie al fatto che lavora – cioè si sostenta). Problema classico. In più, da un po' c’è il problema che non tutto si può produrre (nemmeno da parte, eventualmente, della collettività) sia perché ci sono cose prodotte in passato che ormai si sa che fanno male, sia perché le risorse per produrre la qualsiasi si sono esaurite, e anche perché si è esaurito lo spazio per smaltire tutta questa creazione ‘anarcoide’ della qualsiasi. Ossia: bisogna scegliere cosa produrre per dare lavoro e reddito senza fare male a noi e al pianeta, e bisogna convincere la gente a comprare queste cose che si è scelto di creare e a non volere quelle che non si può più. Di nuovo, queste scelte e questa programmazione si potrebbero fare se fosse la collettività (non il privato, che non ne sfiora proprio il concetto) a volerle fare. E in quei tre articoletti, io proprio quello sto dicendo: che così come la Costituzione italiana delinea un parallelismo (sorta di concorrenza virtuosa) pubblico-privato nei settori dell'istruzione e della salute (coi privati che vi tentano il business senza oneri per le casse pubbliche, almeno ciò dovrebbe essere), ebbene che analogo modello sistema si implementi nella generalità delle attività economiche; giacché il sistema attuale, praticamente un'esclusiva dell'intrapresa privata, è da tempo moribondo, non dà lavoro né reddito né smaltimento di produzione né risparmio di risorse né gestione delle scorie. La mia proposta, in sostanza, ha sì le caratteristiche del socialismo (produzione e commercializzazione statale, previa pianificazione) con la non piccola differenza dal socialismo classico, e monolitico, che essa prevede che le pubbliche produzioni pianificate non sostituiscano quelle private, bensì le affianchino sul mercato: che sia poi la gente a poter preferire tra le due offerte, a ragion veduta. Si può fare, guardate – ed è (quasi) semplice: basta dire ‘io (un partito) voglio fare così’ e vedere quanti ti dicono ‘vai, ti voto: fallo!’. Quel partito, ovviamente, non può che essere la Cosa-di-Sinistra (e chi altrimenti?) che tutti – noialtri – vogliamo (o diciamo di volere). Per capirci ancora meglio. La collettività, secondo la Riconversione (pubblicizzazione dell'offerta di lavoro e programmazione della produzione), dovrà forse impadronirsi di tutti i mezzi di produzione e trasformazione e distribuzione? Ma allora la facoltà d’impresa privata, peraltro costituzionalmente prevista, che fine farebbe? Rispondo ad abundantiam: la collettività non deve affatto impadronirsi di nulla, tanto meno di tutti i mezzi eccetera! La collettività, per tramite dell’amministrazione pubblica (cioè, ripeto: del popolo, attraverso il popolo, a beneficio del popolo), sceglierà di diventare produttore, trasformatore, distributore di uno o più determinati beni o servizi o significati, e metterà i propri prodotti in concorrenza sul mercato con i prodotti omologhi della filiera dell’intrapresa privata – che resterà intatta in tutti i suoi diritti, ed escluso il non-diritto (l'abuso, il delitto) di fare impresa, i privati, in concorrenza allo Stato coi soldi dello Stato stesso (in qualsiasi forma palese o occulta ora gli arrivino a sostegno). E dunque saranno i cittadini, compratori-consumatori-utilizzatori, sarà il popolo cui appartiene la sovranità – a decidere qual è il bene o servizio che merita di più! Che sia la gente, a scegliere se acquistare il pomodoro ‘privato’ (prodotto come adesso, coi – bassissimi – parametri di diritti e sicurezza dei lavoratori, certezza della provenienza e dei trattamenti, rispetto dell’ambiente e gestione di scarti e rifiuti che ha ora, per di più col prezzo maggiorato a ogni passaggio di compravendita tra privati, dai terreni agli scaffali) o invece il pomodoro del demos, chiamiamolo così. Che sia il mercato – che pure a chi orienta da decenni l'opinione di massa piace così tanto – a giudicare chi ha più filo da tessere, e senza giocare sporco (finanziamenti legali, connivenze, corruzione/collusione), tra privato e pubblico! Naturalmente ciò che può valere per il pomodoro (come già per un banco di liceo e un letto d'ospedale, dice da sempre la Costituzione), altrettanto varrebbe per il conto corrente, per l’assistenza legale, per l’edizione di un libro, per un’opera di riassetto idrogeologico, per un capo d’abbigliamento, per un nuovo software e sbizzarritevi voi. Concludendo, davvero, la "mia" Riconversione prescrive che:
Ecco, l'ho presa dall'orrida riforma della scuola di Renzi e Giannini e danti causa, ma il succo è che volevo un po' parlare di questa piccola rivoluzione qui. Spero di esser riuscito a farmi comprendere. Strada, Landini, Ciotti, Rodotà, Ferrero – o tutti voi che volete il bene del Paese e in particolare della gente che per vivere deve lavorare, e che come me aborrite sabotatori e infiltrati, traditori e spie – ci fate un pensiero sopra? LA FABBRICA E’ VOSTRA “La fabbrica è vostra.” Quante volte l’ho sentito dire – resta poi da vedere quante volte ciò corrispondesse alla realtà. E quante volte i lavoratori avranno detto, anche solo per superare i momenti più difficili, “la fabbrica è nostra”. C’è quel bellissimo vecchio film di Monicelli, I compagni, ambientato nella Torino di fine Ottocento: una fabbrica tessile, condizioni di lavoro durissime, i primi semi di una coscienza operaia organizzata; all’ennesimo incidente e in risposta allo sfruttamento feroce, i lavoratori decidono lo sciopero. Li sostiene e li orienta un intellettuale anarco-socialista, un grande Mastroianni, che nella fase più critica della vertenza parla all’assemblea... “...Se abbandonerete la battaglia, i padroni vinceranno sempre! E quella fabbrica che vi dà solo miseria e fatica, a loro darà maggiore ricchezza e potenza!” “Ma la fabbrica è mica nostra...” “Come non è vostra?!? Chi ci lavora quattordici ore al giorno tutti i giorni per tutta la vita? Chi ci butta sangue e sudore? Voi!!! E allora prendetela, la fabbrica... E' vostra! Tornateci, ma per occuparla! Dovete far capire a tutti che ci tenete più che alla vostra casa! Fate capire ai padroni, alla città e al governo che lì è la vostra vita, e la vostra morte! Avanti!!!” E un morto poi ci scappa, in effetti: giovanissimo operaio ammazzato dai fucili del regio esercito, chiamati a difesa del privilegio padronale dinanzi all’occupazione. Da allora ne è passata d’acqua sotto i ponti. Lo Stato italiano oggi non è più (soltanto) la cornice legalista dello sfruttamento di classe, e le autorità non possono più far sparare (impunemente) sul proletariato solo perché prova a resistere allo strapotere del capitale. Ma per ottenere questo c’è voluta tanta di quella costanza e di quella intelligenza, di quella forza organizzata, ci son volute tante di quelle sconfitte e ferite subite, tante morti per incidente – in fabbrica, in miniera, nei campi, nei cantieri – o per malattia contratta sul lavoro o per reazione alla lotta sindacale (vedi Portella della Ginestra) o per ‘terrorismo’ (vedi il metalmeccanico, Fiom e comunista, Guido Rossa), e tante però anche di quelle controffensive coraggiose e vincenti... Siamo passati, in Italia, attraverso una prima guerra mondiale, la dittatura fascista e la seconda guerra mondiale, con le distruzioni e le sofferenze incalcolabili che ciò ha comportato, per arrivare alla Repubblica e alla Costituzione; e poi ancora, attraverso anni e decenni di battaglie e conquiste sindacali e politiche per arrivare allo Statuto dei Lavoratori, ai moderni istituti normativi di assistenza, previdenza, ammortizzazione, facilitazione e tutela, al dispiego di tutto il welfare state possibile entro la cornice di un modello sociale comunque capitalista e nelle condizioni oggettive della nostra storia economica. Fino alla crisi più grave di sempre, questa presente, che il padronato e i suoi referenti politici e istituzionali certo non si stanno trattenendo dall’utilizzare come una stagione di reazione implacabile e, purtroppo, efficace. Allora un’azione in contrattacco è oggi necessaria, da parte di “chi per vivere deve lavorare” (espressione che mi piace molto, nell’uso che ne fa Landini quando dice chi sono le persone oggettivamente interessate al nuovo progetto della Coalizione Sociale). Da quasi settant’anni, dalla sua elaborazione e promulgazione da parte di Padri e Madri Costituenti, la nostra Carta fondamentale recita solennemente: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.” (Art. 41) “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.” (Art. 42) “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.” (Art. 43) Ora, anche se scritto in termini altissimi in senso giuridico e storico, il testo di questi tre articoli – fateci caso – non è che l’estrinsecazione politica dell’assunto da cui siamo partiti: la fabbrica è vostra, voi che ci lavorate; o quantomeno, la fabbrica è anche vostra. Normale che sia così, visto che la Costituzione è stata redatta con l’apporto essenziale dei partiti all’epoca espressione delle classi lavoratrici, e visto che la Nazione non poteva che fondare le proprie nuove basi proprio sugli ideali di giustizia sociale e progresso civile che avevano dato corpo alla Resistenza e alla Liberazione. Durante la lotta partigiana e fino alla vittoria sul nazifascismo furono innumerevoli i casi in cui gli operai stessi difendevano fabbriche e cantieri, a prezzo anche della vita, dalla tattica di distruzione totale che le truppe tedesche in ritirata volevano attuare. “La fabbrica è nostra!...”, come in quella canzone di Dario Fo, La GAP, che dice così bene: In fabbrica fanno retate, torturano gente, non parla nessuno... e trenta operai deportati li chiudono nei vagoni piombati diretti a Dachau. E il 23 di aprile i tedeschi vanno a minare la fabbrica, vogliono farla saltare prima di ritirarsi piuttosto che lasciarla in mano ai liberatori... Magli operai sparano, difendono la fabbrica e salvano le macchine che sono il loro pane... e molti si fanno ammazzar! Adesso siamo liberi, nella fabbrica torna il padrone... arriva un altro ingegnere, stavolta però è partigiano: Brigata Battisti, Partito d'Azion! La canzone poi finisce amaramente, coi lavoratori che al primo sciopero importante nell’Italia repubblicana si trovano buttati per strada, perché il padrone è sempre il padrone e ha trovato il modo di intendersi anche col nuovo ceto politico di governo. La fabbrica è sua, a tutti gli effetti. Ma ecco al primo sciopero c'è un gran licenziamento: è stato l'ingegnere a cacciare via quei rossi che la fabbrica avevan salva’! Eppure, la Costituzione... Ma la Costituzione “è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove,” come disse mirabilmente Calamandrei, “perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.” O, se volete, da tutt’altro punto di vista e in contesto precedente e diversissimo, sul concetto ci orienta Gramsci quando scrive: “Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche [tra il 1919 e il 1920,il primo 'Biennio Rosso'] si dimostrarono all'altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolverei grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato.” Quindi oggi che la secolare guerra di classe dall’alto verso il basso sfrutta più che mai la crisi economica per una ristrutturazione feroce del modello socioeconomico, ma che la conquista del potere di Stato da parte degli operai risulta un anacronismo incomprensibile, tuttavia c’è la Costituzione la quale purché ci si metta dentro responsabilmente l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere le sue promesse, ebbene prende natura viva e non di mera carta. Il lavoro ha così (o avrebbe) un potente alleato dinanzi al capitale al tempo del neoliberismo. La proposta. La proposta di una legge applicativa del dettato costituzionale, sull’obbligo per l’impresa a non svolgersi né in contrasto con l'utilità sociale né in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, si muove un po’ sull’esempio di ciò che concepì Pio La Torre esaminando gli eventuali punti di forza di una diversa lotta alle mafie; una battaglia contro la criminalità organizzata da condurre non solo con l’investigazione e le armi sui territori della sua presenza militare, ma soprattutto essiccando le sorgenti economiche del crimine e i reimpieghi dei suoi enormi profitti. Cosa fece La Torre? In ultima analisi rese semplicemente applicabile, potenziandolo, un certo articolo del Codice Penale (Art. 240,Confisca – Libro I Dei reati in generale, Titolo VIII Delle misure amministrative di sicurezza, Capo II Delle misure di sicurezza patrimoniali) che così prescrive: “Nel caso di condanna, il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose, che ne sono il prodotto o il profitto.” Infatti, la legge promulgata con il suo nome (unito a quello di Rognoni, per i decreti da lui emanati in qualità di Ministro di Grazia e Giustizia) intanto introduce il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, ma soprattutto dispone che nei confronti del condannato sia “sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l'impiego.” In altre parole, grazie a questa legge – e prima non si poteva fare – un giudice può ordinare, anche d’ufficio, il sequestro dei beni appartenenti al soggetto nei confronti del quale è stato iniziato il procedimento di accusa di appartenenza alla mafia: i beni di cui dispone possono essere sequestrati se si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite, o ne costituiscano il reimpiego. Di più: il Tribunale dispone subito la confisca dei beni sequestrati dei quali il proprietario non dimostri la legittima provenienza e, semmai dopo, revoca il sequestro per tutti gli altri beni. Basta l’accusa, capite? E l’onere della prova, per riavere i suoi beni, spetta all’accusato. In questa nostra stagione di iper-garantismo ipocrita, frutto avvelenato del berlusconismo, un’impostazione così non passerebbe mai. E invece all’epoca divenne – e lo è tuttora – uno degli strumenti più efficaci nella guerra di legalità contro l’Antistato e nella restituzione alla collettività di risorse produttive e ambientali (l’esperienza di recupero di Libera di don Ciotti è giustamente la più famosa di tutte, ma non è l’unica). I mafiosi lo capirono subito, tanto che tra la presentazione della proposta di legge in Parlamento, nel marzo 1981, e la sua approvazione nel settembre 1982, fecero fuori La Torre – segretario regionale del PCI – e il suo autista Di Salvo. Diceva che “occorre spezzare il legame esistente tra il bene posseduto e i gruppi mafiosi, intaccandone il potere economico e marcando il confine tra l’economia legale e quella illegale”. Bene, questa mia piccola proposta di iniziativa di legge popolare (già: è a una campagna, che penso) parte da un’urgenza analoga: in caso di violazione di quei tre articoli della Carta, occorre spezzare il legame esistente tra il mezzo di produzione posseduto e i gruppi imprenditoriali, intaccandone il potere sistemico e marcando il confine tra l’economia che rispetta la Costituzione e quella che la viola, e occorre restituire il mezzo di produzione a chi ci lavora e ne vive affinché lo riconverta in un fattore di economia che rispetta la Carta Costituzionale. Credo siano auto-evidenti le ragioni per cui il mio obiettivo è quello di stimolare un ragionamento a 360°, ma soprattutto teso a interessare le sensibilità della Fiom – cioè della forza organizzata e conseguente che si è generosamente incaricata di far circolare il progetto della Coalizione Sociale, certo ancora allo stadio aurorale, in quell’Italia migliore che esprime realtà come Fiom, appunto, e come Libera, appunto, e come Emergency, Libertà e Giustizia, ARCI, Legambiente, Articolo21, GruppoAbele... A rinforzo, tuttavia, oso prender ulteriore spunto da un’intervista del 1998 a Bruno Trentin (pubblicata col titolo Lavorare: perché?) nella quale a una studentessa lui rispondeva: “Ci son delle volte in cui il muro contro muro va fatto, perché quando sono in gioco delle questioni fondamentali, come il diritto delle persone, c'è il muro contro muro. Lì c'è poco da fare. Non si può cedere, non si può fare compromessi di qualsiasi natura. Se lei mi cita il caso della mobilità, ci sono delle mobilità che sono inaccettabili, perché rientrano puramente e semplicemente nell'interesse dell'impresa di usare e gettare della mano d'opera a poco prezzo. [...] E allora bisogna, innanzi tutto, avere un sindacato capace di proporre, capace di proporre delle alternative. Ci sono sempre delle alternative alle scelte dei padroni o degli imprenditori. Ecco dobbiamo imparare a dire meno ‘no’ e più dei‘sì’, ma non dei ‘sì’ a quello che dice l'imprenditore, dei‘sì’ a quello che vogliono i lavoratori.” Allora il ‘sì’ – o uno dei ‘sì’ – che secondo me è maturo il tempo perché noi possiamo pronunciarlo con una qualche aspettativa di buona riuscita, di interessare l’opinione pubblica e di raggiungere una soglia critica rispetto alla quale le istituzioni non possano restare indifferenti, è l’affermazione del diritto di chi per vivere deve lavorare, costituzionalmente sancito, a lavorare per un’impresa che non sia dis-utile socialmente né tanto meno dannosa per la sicurezza, la libertà e la dignità dell’uomo e della donna. Affermazione la quale deve secondo me passare per una previsione normativa che oggi non c’è; o meglio, che c’è ma è un po' nascosta in ambiti ad oggi scollegati dell’ordinamento giuridico, e che invece una legge apposita provvederebbe a ‘giuntare’ e rendere efficaci (come la Rognoni – La Torre contro le mafie). Infatti non è che il Codice Penale, già ora così com’è, si occupi soltanto dei reati della criminalità organizzata. Vediamo quanti reati può commettere la proprietà di un’azienda, che sia amministrata da un singolo oppure da un gruppo di azionisti, da un consiglio di amministrazione, nell’esercizio del proprio diritto d’impresa, pur senza aver nulla a che fare con mafia, camorra eccetera; ossia, vediamo in quanti modi la conduzione di un’azienda privata può contraddire le prescrizioni espresse dalla nostra Costituzione negli stessi articoli in cui si proclama libera e legittima l’impresa privata in Italia. La sequenza dei reati possibili è abbastanza impressionante – ma per nulla fantasiosa: basta aver presente la cronaca! Libro II (Dei delitti in particolare), Titolo VI (Dei delitti contro l'incolumità pubblica), Capo II (Dei delitti di comune pericolo mediante frode): si va dall’epidemia all’avvelenamento, adulterazione o contraffazione di acque; dall’avvelenamento, adulterazione o contraffazione di sostanze alimentari o di altre cose in danno della pubblica salute, al commercio di alimenti contraffatti, adulterati o nocivi; dal commercio o la somministrazione di medicinali guasti, alla somministrazione di medicinali comunque in modo pericoloso perla salute pubblica... Ancora, stesso Libro, stesso Titolo, Capo III (Dei delitti colposi di comune pericolo): andiamo dai delitti colposi di danno a quelli di pericolo; dall’omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro, ai delitti colposi contro la salute pubblica... Stesso Libro, Titolo VIII (Dei delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio), Capo I (Dei delitti contro l'economia pubblica): dalla distruzione di materie prime o di prodotti agricoli o industriali, ovvero di mezzi di produzione, alla diffusione di una malattia delle piante o degli animali; dal rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio, alle manovre speculative sulle merci; dalla serrata per fini non contrattuali alla coazione alla pubblica autorità mediante appunto serrata; dal boicottaggio all’inosservanza delle norme disciplinanti i rapporti di lavoro... Ancora, stesso Libro, stesso Titolo, Capo II (Dei delitti contro l'industria e il commercio): dalla turbata libertà dell'industria o del commercio, all’illecita concorrenza con minaccia o violenza; dalle frodi contro le industrie nazionali a quelle nell'esercizio del commercio; dalla vendita di sostanze alimentari non genuine, a quella di prodotti industriali consegni mendaci; dalla fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale, alla contraffazione di indicazioni geografiche denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari... E concludiamo l’elenco degli orrori con stesso Libro, stesso Titolo, Capo III (Dei delitti contro la libertà individuale), Sezione I (Dei delitti contro la personalità individuale): si va dalla riduzione o mantenimento in schiavitù e servitù, alla tratta di persone; dall’acquisto e alienazione di schiavi, all’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro... Come si vede, sono tutti reati per cui – nell’ipotesi l’imprenditore o il CdA li commettano o facciano commettere, per massimizzare i profitti – è palese che quella libertà di attività economica privata, garantita dalla Carta a certe condizioni, viene però usata contro l’interesse collettivo e contro i diritti fondamentali delle persone. Cioè, infrangendo proprio quelle condizioni. Si aggiunga il fatto che non solo la Costituzione Italiana delimita la libertà d’impresa privata (oh, grande saggezza dei Costituenti!), ma prevede pure che la stessa proprietà privata sia limitata nei modi di acquisto e di godimento allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti, che possa essere espropriata per motivi d'interesse generale (nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo), e infine che la legge possa riservare originariamente o trasferire allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti, determinate imprese o categorie di imprese (oh, sublime equità sociale e profondità morale dei Costituenti!). Articoli 41, 42 e 43– sempre loro. Tiro le somme. Se dunque noi lavoratori diciamo “la fabbrica è nostra”, anche se a qualcuno suona quasi un’insubordinazione, invece sembra proprio che non stiamo scavalcando di mezzo naso l’orizzonte già oggi presidiato dall’impianto generale della Costituzione, dei Codici e delle leggi; così come è normale che sia, a pensarci bene, visto che questo nostro impianto – pur conforme ai criteri generalissimi di un modello socioeconomico capitalista – è nato pur sempre in un Paese in cui un sindacato forte e un partito politico dei lavoratori hanno fatto la Storia. Ciò che ancora manca è però una ‘leggina’ scritta apposta, che trasformi in norma positiva ed esplicita ciò che finora è o solo implicito nel sistema generale oppure espresso soltanto in forma negativa, di divieto. E tale leggina, non mi aspetto certo che l’attuale Parlamento la concepisca nemmeno – ma le Camere potrebbero esser costrette almeno a discutere una proposta di legge di iniziativa popolare (come concede a cittadine e cittadini la Costituzione, all’articolo 71), se fosse accompagnata da una campagna di sensibilizzazione e mobilitazione come si deve. Infine, viviamo pur sempre in questa età pelosamente garantista; allora, rispetto al rigore della norma contro i beni ‘in odore’ di mafia cui basta l'iscrizione dei proprietari tra gli indagati, per il sequestro, la mia proposta ‘si accontenterà’ di procedere alla confisca e alla riconversione dei mezzi di produzione quando la loro proprietà sia stata non solo messa in stato di accusa per uno dei tanti reati sopra enumerati, ma almeno condannata in 1° grado. Eccola bozza, che porgo all'attenzione dei giuristi di razza perché la correggano (ciò di cui ha sicuro bisogno). Sono quattro articoletti, tanti quanti ne riporta l’Italicum famigerato– come dire che non serve tanto testo normativo per cambiare, nel bene o nel male, le cose in profondità. Proposta di legge di iniziativa popolare per la confisca delle imprese private in contrasto con l’utilità sociale o dannose per la sicurezza, la libertà e la dignità umana Articolo 1 – La presente legge è in diretta applicazione degli Articoli 41, 42 e 43 della Costituzione Italiana, e conforme alle previsioni di cui al Codice Penale, Libro II, Titoli VI (Capi II e III), VIII (Capi I e II) e XII (Capo III, Sezione I). Articolo 2 – Qualunque mezzo di produzione o distribuzione di beni o servizi la cui amministrazione in regime privato sia stata giudicata in primo grado colpevole di reati contro la persona o contro l’incolumità pubblica o contro l’economia pubblica, può essere confiscato e riconvertito sotto il profilo produttivo e organizzativo per il vantaggio economico e sociale della collettività e per il rispetto della sostenibilità ambientale. Articolo 3 – Il mezzo confiscato è giuridicamente di proprietà pubblica, e da considerarsi bene comune; non può pertanto essere alienato con vendita a privati. La sua gestione spetta in primo luogo alle forze del lavoro manuale e intellettuale che già vi prestavano opera, di concerto con le istanze di rappresentanza democratica del territorio di ubicazione del mezzo. Articolo 4 – Qualora l’amministrazione privata del mezzo confiscato sia prosciolta dalle accuse nei successivi gradi di giudizio, essa avrà diritto al ripristino dei diritti proprietari e all’equo risarcimento per il danno eventualmente subito. Io credo che sarebbero tante cittadine e tanti cittadini a potersi riconoscere in questa stessa urgenza – che chiamerei senz’altro anche politica – se un’organizzazione importante ne facesse una delle proprie linee di comunicazione e di azione. In fondo, non c’è bisogno che tu sia un rivoluzionario e neppure un comunista, ma semplicemente una persona per bene e intelligente insieme, se vuoi che tutti i lavoratori partecipino in qualche modo alla gestione delle proprie aziende, che lo Stato possa produrre una quantità di beni e servizi, specie i beni e i servizi di utilità generale, e che nessuno di quelli che fanno impresa privata lo faccia recando danno al benessere collettivo, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità di qualcuno – e sennò, vuoi semplicemente che lo Stato gli tolga l’impresa. Siamo tanto lontani da quegli anni eccezionali in cui un Palasport di Torino ospitava in piena estate un gremitissimo “Convegno nazionale delle avanguardie operaie”, dalla cui tribuna parlavano tute blu di tutta Italia raccontando di scioperi e cortei, avanzando rivendicazioni come l’abolizione delle categorie, la riduzione dell’orario di lavoro, gli aumenti salariali uguali per tutti, in assoluto e non in percentuale, e la parità normativa con gli impiegati... C’era Mirafiori, c’erano il Petrolchimico di Marghera, la Dalmine e il Nuovo Pignone di Massa, la Solvay di Rosignano, la Muggiano di La Spezia, la Piaggio di Pontedera, l’Italsider di Piombino, la Saint-Gobain di Pisa, la Fatme, l’Autovox, la Sacet e la Voxson di Roma, la Snam, la Farmitalia, la Sit Siemens, l’Alfa Romeo e l’Ercole Marelli di Milano, la Ducati e la Weber di Bologna, la Fiat di Marina di Pisa, la Montedison di Ferrara, l’Ignis di Varese, la Necchi di Pavia, la Sir di Porto Torres, i tecnici della Rai di Milano, la Galileo Oti di Firenze, i Comitati Unitari di Base della Pirelli, l’Arsenale di La Spezia... Siamo lontani da quel secondo Biennio Rosso per tanti motivi e tante cause che non basterebbe un libro a contenere – e comunque io non so scriverlo minimamente. Ogni stagione, ogni fase della lotta di classe infinita, ha la propria fisionomia visibile e la propria architettura profonda. Ma sempre e dovunque, chi sta dalla parte del lavoro nella sua dialettica col capitale deve fare tutto ciò che gli è di volta involta possibile, e nei modi in cui è oggettivamente meglio farlo, per poter rispondere in piena coscienza alla domanda che uno studente in barba e basco – ‘Marx’, lo chiamano nel film – poneva a Gian Maria Volonté in un’abbacinante sequenza notturna di La classe operaia va in paradiso: “Lulù, ma che è vita questa?” LA PRETESA DI SALVARSI “Il mondo ricco è ricco: sono i suoi Stati a essere poveri. Il caso più estremo è quello dell’Europa, che è insieme il continente in cui i patrimoni privati sono i più alti del mondo e il continente che incontra più difficoltà a risolvere la crisi del debito pubblico.” Il Capitale – nel XXI Secolo, Thomas Piketty (pag. 862). E perciò è non solo iniquo, ma è sciocco, paradossale, che dall’inizio della Grande Crisi Globale fino ad oggi, i decisori politici e finanziari di quasi tutti i singoli Paesi, di ogni continente, di quasi tutte le Unioni tra Paesi (dall’Unione Europea agli USA), e di quasi tutti gli organismi politico-finanziari internazionali (dalla BCE all’FMI), l’abbiano affrontata trasferendo altri capitali dai già poveri patrimoni pubblici ai già ricchi patrimoni privati. Col taglio ai bilanci nazionali, con l’austerity, con l’annullamento degli investimenti per i servizi generali, con la compressione dei costi della democrazia. O meglio: paradossale è dire, come essi tutti dicono, che questa sarebbe la ricetta per il bene comune. Quando è vero il contrario: questo immenso trasferimento di risorse dal pubblico al privato, è la ricetta per il meglio di pochissimi e per il peggio di tantissimi – ed è il sistema più sicuro per consolidare questa divergenza per tanto futuro da oggi. Sarebbe lo stesso, in un ascensore che precipita, mettere ancor più peso nella cabina che cade togliendolo dalle lastre di contrappeso che intanto schizzano in alto! I decisori politici e finanziari si permettono di fare una cosa così ingiusta, e di spacciarla in modo tanto assurdo, perché essi – e l’élite che rappresentano – non stanno nella cabina dell’ascensore, è chiaro. Ma l’insensatezza della situazione raggiunge il massimo quando chiediamo alla grande maggioranza della gente che sta dentro l’ascensore che precipita, se gli stia bene così – cioè se gli sta bene che la ricchezza venga tolta alla disponibilità pubblica, già scarsa, e attribuita a quella privata (dei grandi patrimoni, soprattutto); e loro dicono di sì. Mentre cadono. E’ perché le élite hanno non solo il comando materiale tramite i propri rappresentanti nelle posizioni decisorie politiche e finanziarie, ma soprattutto quello non-materiale, culturale, egemonico, sull’opinione di massa, sul senso comune, tramite… be’, lo sapete – ci stiamo immersi letteralmente! E grazie a questo comando hanno per anni lordato talmente il concetto stesso di pubblico e comune, che il gioco gli riesce: la gente non ama il privato in sé, non si fida più di tanto della corsa al profitto come modello generale (la Crisi glielo conferma, peraltro), ma è che del suo contrario non immagina più possibile neppure l’esistenza. Pubblico è un’idea tabuizzata. Ora, tutto questo è la Destra – in senso generalissimo (ci stanno dentro componenti che sembrano magari diversissime tra loro, e ovviamente pure quelle componenti che dicono che la Destra e la Sinistra non esistono più). Se ne deduce che la Sinistra – il suo opposto – deve distinguersi per un programma contrario a quello in esecuzione un po’ dappertutto: deve essere, la Sinistra, dappertutto, quella che dice alla gente che sta cadendo in ascensore, che toglierà tanti chili dalla cabina e li metterà sulle lastre contrappeso – finché la caduta si arresti. E magari si riprenda a salire! Fuor di metafora, la Sinistra – in senso generalissimo – è allora quella che si caratterizzerà per una schietta intenzione programmatica di togliere capitali dai patrimoni privati (in senso progressivo: a capitali maggiori, aliquote maggiori di prelievo – come vuole la giustizia tra gli uomini e come vuole l’intelligenza dei conti) e di mettere capitali sui patrimoni pubblici. Per far crescere i bilanci degli Stati, per fare investimenti sui servizi collettivi, per rafforzare le istituzioni della democrazia, per dare lavoro – tendenzialmente, una piena occupazione – e per far avanzare le forme della civiltà, della cultura, dell’umanità, della pace. Se non è questo, la Sinistra, non è. O quantomeno non è un granché: infatti, se non pone una cosa così decisiva per la massa (il prelievo, dal grande capitale privato, di risorse da mettere a bilancio pubblico per la vita della generalità della gente) in cima alla propria carta d’identità, e invece mette qualcosa che magari interessa qualche strato, di quella generalità, particolarmente sensibile a questo o quel tema di progresso (dai nuovi diritti civili alle lucide visioni geopolitiche), ebbene la grande massa penserà che il concreto riscatto di tutto un popolo sia davvero un’utopia – come gli sibila la Destra da una lunga fase storica additando il progressista intellettuale come un garantito, come un nemico del popolo –, e allora tanto vale cercar di scamparla ciascuno individualmente tendendo le mani da dentro l’ascensore a quelli già in salvo, l’élite, che promettono di tirar fuori i conformati al proprio modello. Prima dello schianto. L’ha per caso tabuizzata anche la Sinistra, l’idea di pubblico? E’ possibile: la Sinistra sono uomini e donne di questa Terra e di questo tempo, non alieni né dis-ibernati; e quindi il comando immateriale che l’élite e la Destra esercitano su tutti, immergendoci tutti nello stesso senso comune apparentemente neutrale e invece schieratissimo, produce effetti anche sull’azione, sul coraggio e sul pensiero stesso di uomini e donne che costituiscono le forze più o meno ingaggiate della Sinistra. Ora, se non siamo ancora arrivati a tanto, credo sia il momento di alzare il braccio e dare il segnale che no. Tra l’altro servirebbe a riconoscerci tra noi, a unire le forze più conseguenti, più idonee a strutturarsi per il contrattacco, e per la necessaria opera di convincimento presso tutti gli altri abitatori della cabina in caduta. E direi che la buona ragione di trovare il massimo comune denominatore tra le tante sensibilità di Sinistra – per esempio in Italia, per esempio adesso – valga già da sola lo sforzo di provarci! Ma davvero possiamo unirci o dividerci sul giudizio da darsi alle scelte europarlamentari di Barbara Spinelli? Non è paradossale, è psicotico. E poco meno lo sarebbe – lo è – unirsi o dividersi sulla fiducia in Civati, in Vendola, in Ferrero, in Rodotà, in Landini; come sull’ordine prioritario in cui un domani mettere le unioni civili, lo ius soli, il conflitto d’interessi, la politica internazionale, e completate da voi la lista. Viceversa, se diciamo che la Sinistra – qui in Italia, e ora al tempo di Renzi – si coagula intorno alla proposta sacrosanta di istituire una tassa patrimoniale, un’imposta progressiva sul capitale (per esempio: lo 0.1% annuo per meno di 200.000 euro di patrimonio netto, 0.5% tra i 200.000 e il milione, 1% tra 1 e 5 milioni, 2% tra 5 e 100 milioni, e 5% oltre quella somma – cfr. Piketty, pag. 841), e al sacrosanto programma di realizzare con quegli importi gran parte degli investimenti pubblici che fanno la differenza tra il Paese disoccupato e precario e disservito che ora siamo, e la Repubblica Italiana disegnata da Madri e Padri Costituenti, ebbene io penso che non solo chi entrerà a far parte attiva, dirigente, di questa Sinistra sarà tanto ma tanto più affidabilmente di sinistra che se cooptato lungo qualsiasi altra discriminate teorica possibile (preferenze di leadership, di modello organizzativo, di orientamenti radical-chic, di apparentamenti geopolitici), ma che questo parlare e agire politico arriverà al cuore e alla mente delle persone comuni. Concretamente, misurabilmente, semplicemente. Qualcuno smetterà allora di tender la mano al proprio nemico, che nasconde un coltello, sperando così di salvarsi. Qualcuno darà allora una mano a toglier peso dalla cabina. E poi qualcun altro, e altri, e altre: nessun tabù è inamovibile. Gente che vuol fare la Sinistra – lo chiedo a voi: possiamo riuscirci? Tra l’altro, come sempre, non stiamo uscendo di un passo dal seminato della nostra grande Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.” (Art. 53) Ce la facciamo? Lo domando, accorato, perché intanto cadiamo. E non è neanche vero che fin qui tutto bene. Fine del programma. |